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Lacrime di bronzo – L’ultimo tuffo di Tania

August 25, 2016 by matteoscalco Leave a Comment

SYDNEY, 2000

Tutto nasce dal sogno di un bambino, una bambina in questo caso. Tania Cagnotto arriva ai Giochi Olimpici di Sydney 2000 a 15 anni appena compiuti come la più giovane rappresentante della spedizione italiana. Non ci sono aspettative su di lei, ma c’è più un’aura di curiosità nel vedere come si comporterà la giovane bolzanina figlia di quel Giorgio Cagnotto che per ultimo aveva portato la bandiera italiana su un podio olimpico o mondiale dei tuffi. Negli occhi di Tania non si scorge paura o tensione, ma solamente la felicità e l’innocenza di una bambina che non conosceva ancora il sapore della sconfitta e del fallimento. Il bello era partecipare, visitare il villaggio olimpico e scattare le fotografie agli atleti. Divertirsi.

“Ma dobbiamo gareggiare di fronte a tutta questa gente?” è il pensiero che Tania fa insieme all’amica Maria (Marconi) quando entra nell’Aquatic Center per assistere alla finale dei 200 misti di Massimiliano Rosolino. Parole tanto infantili quanto significative per comprendere un’atleta che per la prima volta si ritrova catapultata in una competizione di livello mondiale. Alle Olimpiadi.

Foto: La 15enne Tania Cagnotto ai Giochi di Sydney 2000.

 

Tania riuscirà a qualificarsi per le semifinali nel trampolino da tre metri, riuscendo ad entrare in un gruppo di 19 atlete nel quale la seconda tuffatrice più giovane aveva 3 anni più di lei. Alla fine arriverà 18esima, ma tornerà a casa con la consapevolezza di una bambina che sapeva qual era il suo posto e cosa voleva fare da grande. La tuffatrice. Come papà Giorgio, suo allenatore e suo primo tifoso. Felice, senza pensieri. Ma sarà l’ultima volta.

MONTREAL, 2005

I risultati raggiunti da quella giovane ragazza fecero presto ad arrivare sulla bocca di tutti, creando l’immagine di una predestinata. Era lei che doveva riportare l’Italia su un podio internazionale dopo più di vent’anni. Lo straordinario 6° posto sul trampolino 3 metri ai Mondiali di Fukuoka 2001, conquistato a soli 16 anni, iniziò forse a caricare sulle spalle di Tania un peso troppo grande per un’atleta che in fin dei conti era ancora all’inizio della sua carriera.

Presto arrivarono le prime medaglie continentali, ma anche le prime grandi delusioni. Le due finali mancate ai Mondiali di Barcellona 2003 e i due ottavi posti ai Giochi di Atene 2004 (risultato comunque di prestigio) non bastavano. Molti iniziavano già ad etichettarla come eterna promessa. Ma era solo questione di tempo.

 Foto: Tania Cagnotto ai Giochi di Atene 2004.

 

“C’è la Cagnotto?”. Era questa la prima domanda che mi rivolgeva mio papà quando mi trovava nel divano a guardare quei pazzi che si tuffavano a suon di avvitamenti e salti mortali. Non guardava nemmeno se la gara fosse maschile o femminile. Sapeva che se c’era Tania c’era da divertirsi. E da soffrire. Il 23 luglio 2005 Tania si presenta all’ultimo tuffo della gara mondiale dal trampolino 3 metri al quarto posto. La città è Montreal, quella dove 29 anni prima papà Giorgia conquistava l’argento olimpico dal trampolino. 1.95 punti davanti a lei Anna Lindberg, la svedese che a 18 anni era nella stessa semifinale di Tania ai Giochi di Sydney. Sul trampolino canadese piove, mentre nella mente dell’atleta bolzanina e di quella dei tifosi che l’avevano accompagnata fin da bambina, c’era la consapevolezza di essere ad un niente da un sogno che sembrava quasi impossibile realizzare. L’adrenalina sale. Rafforzata da una rabbia per un decimo posto dalla piattaforma pochi giorni prima che sapeva dell’ennesimo fallimento. Un’umiliazione, come sussurrava papà Giorgio. Ma è un altro giorno. Un’altra gara. Un’altra storia.

Silenzio. Tania sale sul trampolino per il suo doppio salto mortale e mezzo rovesciato carpiato. Il suo tuffo. Nel suo labiale si legge una sorta di countdown. Uno. Due. Tre. Vai! Apnea.

Video: L’ultimo tuffo di Tania ai Mondiali di Montreal 2005

Un tuffo nella storia. Pochi minuti dopo Anna Lindberg totalizzava 71.34 punti nel suo ultimo salto, contro i 78.30 di Tania. E’ medaglia di bronzo. La rabbia, la tensione, la paura e l’adrenalina diventano euforia. E noi – scriveva Claudio Gregori per La Gazzetta dello Sport – flagellati dalla pioggia, ammiravamo la bellezza del miracolo.

ROMA, 2009

“Tania, portami sul podio!”. Erano queste le parole di Francesca Dallapè il 23 luglio 2009. Siamo a Roma, per i Mondiali di casa. Due giorni prima Tania portava a casa la terza medaglia di bronzo mondiale consecutiva dai 3 metri. Montreal 2005, Melbourne 2007 e Roma 2009. Nel mezzo l’Olimpiade di Pechino con un quinto posto dietro ai mostri “sacri” della disciplina: Guo JingJing, Julia Pachalina e Wu Minxia. Non erano ancora i suoi Giochi, come testimoniava anche l’eliminazione in semifinale dalla piattaforma. Arrivò così la decisione di abbandonare i 10 metri, la disciplina che le aveva regalato i suoi primi ori continentali, ma che tante delusioni le aveva dato nelle competizioni internazionali. Era forse il momento di tuffarsi in una nuova avventura.

Dall’ottobre del 2008 per tre volte alla settimana Francesca Dallapè percorreva i 60 chilometri che separano la sua Trento da Bolzano, dove si allenava Tania. Le due erano grandi amiche, ma non avevano mai gareggiato insieme nel sincro. L’affiatamento tra le due fu immediato. Spesso ci vogliono anni per costruire la giusta sinergia che possa portare una coppia di tuffatrici nell’Olimpo dei tuffi sincronizzati mondiali. Ma quando appena 7 mesi dopo Tania e Francesca trionfavano agli Europei di Torino, forse loro per prime si resero conto che nulla era impossibile. E c’erano i Mondiali di casa ad attenderle.

Foto: Tania Cagnotto e Francesca Dallapè in azione ai Mondiali di Roma 2009.

 

A Roma la nuova coppia del sincro azzurro non arriva con i favori del pronostico, ma con la consapevolezza di potersela giocare da outsider. Cina a parte, le avversarie più temibili erano due: la Russia di Anastasia Podznjakova e dell’immortale Julia Pachalina e il Canada di Melanie Rinaldi e della 18enne emergente Jennifer Abel. Con una gara quasi perfetta le azzurre arrivano all’ultimo tuffo al secondo posto, con rispettivamente 8 e 13 punti di vantaggio sulle russe e sulle canadesi. Mancava l’ultima carta da giocarsi, con l’amato doppio e mezzo rovesciato carpiato a separare Tania e Francesca dal podio. L’ultimo tuffo per scrivere per la prima volta il nome Italia nel medagliere mondiale dei tuffi sincronizzati. Le canadesi sbagliano. Le russe pure. “Ora o mai più” pensò Tania tra sè e sè, tranquillizzando la compagna prima di salire sul trampolino.

“Pronta?”. “Sì”. “Uno, due, tre!”. Rincorsa e salto. Silenzio. Sullo sfondo uno dei tantissimi tifosi presenti sugli spalti sventolava una bandiera italiana con scritto “Mi sBronzo di Tania”. Ma questa volta la medaglia è d’argento.

 Foto: Tania Cagnotto e Francesca Dallapè sul podio dei Mondiali di Roma 2009

 

LONDRA, 2012

Nell’immaginario comune i tuffi sono una di quelle discipline dove si gareggia per il terzo posto. In questo senso Tania aveva conquistato nella sua carriera il massimo, alle spalle delle più forti trampoliniste cinesi della storia. Nella bacheca della bolzanina manca solo una cosa, quel risultato che non porta il tuo nome solo nella storia, ma lo eleva a leggenda. La medaglia olimpica.

Ai Giochi di Londra 2012 l’obiettivo è solo uno. Salire su quel podio che già per tre volte le era sfuggito, ma con la consapevolezza di non essere ancora pronta all’epoca.

Doveva essere la sua Olimpiade.

Il 29 luglio 2012 Tania sale con Francesca Dallapè sul trampolino per la gara del sincro. Dopo i primi tre salti la classifica è tiratissima. In 6 punti si trovano nell’ordine Stati Uniti, Italia e Canada, dietro all’irraggiungibile Cina. Tania e Francesca sono le prime a presentarsi sul trampolino per il quarto tuffo.

“Cosa fa davvero paura ad un’atleta?”. “La paura di non raggiungere gli obiettivi dopo tanto lavoro e dopo tanti sacrifici”.

Le due tuffatrici azzurre sporcano il tuffo, finendo leggermente abbondanti. Non c’è sincronia. Il voto più basso è un 6.5, ma il punteggio di 63.90 è sufficiente per permettere alle canadesi di passare davanti. L’ultimo tuffo è buono, ma la beffa è servita. Il terzo posto sfugge di 2 punti. Quarte. Quattro anni buttati per due punti è il primo pensiero. “Perdere una medaglia così fa male”, le parole amare.

 

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Foto: L’amarezza di Tania Cagnotto e Francesca Dallapè dopo il 4° posto a Londra.

Una settimana dopo Tania è nuovamente sul trampolino per la gara individuale. In semifinale aveva realizzato il suo record personale di punti in 362.10, mettendosi perfino alle spalle la giovane cinese He Zi. Negli occhi di milioni di italiani di fronte alla tv la speranza di cancellare le lacrime del sincro e di vedere realizzato il sogno più grande di quell’atleta che tanto li aveva fatti emozionare. Il primo tuffo è perfetto, ma nei tre salti successivi Tania perde quell’eleganza che l’aveva contraddistinta nei giorni precedenti. L’atleta azzurra scende dal secondo al quinto posto. Prima dell’ultimo turno di rotazione ci sono 1.70 punti a separarla dal bronzo virtuale. Ad occupare provvisoriamente quella piazza Laura Sanchez, la 26enne messicana che prima di allora non era mai salita un un podio internazionale. Tania aveva il suo tuffo per ultimo, quel doppio e mezzo rovesciato carpiato che tante volte l’aveva portata su quel gradino del podio tanto ambito. Ma non questa volta.

Video: L’ultimo tuffo di Tania ai Giochi di Londra 2012.

Il podio le sfugge per 20 centesimi di punto. Tania migliora ancora il suo record personale, ma 362.20 punti non bastano per scalzare la messicana da quel bronzo che tante volte era stato suo in passato. E’ il secondo quarto posto.

Incredulità. Silenzio. Dolore e lacrime. Non c’è rabbia. C’è solo il fallimento totale di quattro anni di lavoro e l’incapacità di guardare avanti, a quell’eventuale Olimpiade di Rio quando l’anagrafe segnerà 31 anni. Tanti, per una tuffatrice. “Ora basta, sono contenta della mia carriera, oggi sono delusa, ma ho avuto anche un sacco di soddisfazioni. Adesso sto male, ma è anche tanta la tensione. Avrei pianto con qualsiasi risultato, devo scaricarmi. I Giochi non fanno per me, questo era il mio sogno, ma la vita è un’altra”. Parole che sembrano i titoli di coda di un film finito nel peggiore dei modi.

RIO, 2016

Esattamente 4 anni e due giorni dopo, però, quel film avrà un seguito. Il 6 agosto 2016 Tania Cagnotto e Francesca Dallapè si presentano sul trampolino per la gara olimpica del sincro 3 metri. Da Londra a Rio con l’obiettivo di conquistare una medaglia tanto ambita quanto ormai maledetta.

L’ultima occasione, dopo un quadriennio che dalla cocente delusione dei Giochi britannici l’ha vista rialzarsi e andarsi a prendere tre medaglie ai Campionati Mondiali di Kazan 2015, tra cui lo storico oro davanti alle cinesi nel trampolino da un metro. Sul podio russo le lacrime di chi ha dato tutto ad una disciplina che tre anni prima l’aveva fatta cadere in uno di quegli incubi dai quali è difficile rialzarsi. Lacrime di gioia.

 Foto: L’oro di Tania Cagnotto ai Mondiali di Kazan 2015.

 

La medaglia olimpica, però, è un’altra cosa. A Rio l’orologio indica le 16, in Italia le 21. Davanti alla tv ci sono più di quattro milioni di spettatori. Otto milioni di occhi ad accompagnare Tania e Francesca verso l’unico alloro che non erano riuscite ad acciuffare. Cina a parte, le avversarie sono l’Australia della giovane rampante Maddison Keeney e quel Canada di Jennifer Abel che a Londra ci aveva rubato il bronzo. Serve la gara perfetta.

“Stanotte ho pensato che era nel destino, che se ne va per strade assurde”.

Alla fine sarà medaglia d’argento. La prima medaglia dei tuffi italiani 36 anni dopo quella di papà Giorgio. La prima in assoluto al femminile. Nell’ultimo tuffo della loro carriera insieme Tania e Francesca raccolgono il successo più importante, con un destino beffardo che questa volta consegna il quarto posto proprio alle canadesi. E’ l’argento della liberazione, perché un errore avrebbe compromesso anche la gara di Francesca, l’amica di una vita che non avrebbe partecipato all’individuale. L’amica che l’aveva aiutata a rialzarsi e a reagire dopo le lacrime di Londra. L’amica che alla fine di tutto questo l’accompagnerà all’altare. Il primo abbraccio è per lei.

Abbracciamoci e RT tutti la coppia d’argento a #Rio2016 @TCagnotto–@fradallape!!! #italiateam @FINOfficial_ #diving pic.twitter.com/AOTEuF1FQ1

— ItaliaTeam (@ItaliaTeam_it) 7 agosto 2016

Ora non c’è più niente da perdere. 16 anni dopo Sydney, Tania può finalmente divertirsi. Godersi fino all’ultimo tuffo quello sport che le aveva regalato anche l’ultima soddisfazione che le mancava. Di quelle atlete che avevano cavalcato il trampolino dei Giochi australiani e dell’Olimpiade greca di Atene 2004 è rimasta solo lei. A 31 anni compiuti nessuna tuffatrice ha mai conquistato una medaglia olimpica individuale dal trampolino.

Cinque tuffi alla fine. Davanti l’ultimo obiettivo di una carriera unica, quel bronzo che di un niente le era sfuggito quattro anni prima. La prima avversaria è Jennifer Abel. L’atleta con la quale Tania condivide una profonda amicizia dopo otto anni trascorsi insieme a gareggiare nelle piscine di tutto il mondo. L’atleta che nelle qualificazioni aveva realizzato 373.00 punti, un risultato mai raggiunto dalla bolzanina, ma che sotto pressione un anno prima aveva sbagliato l’ultimo tuffo ai Mondiali, regalandole la medaglia di bronzo.

The difference between being 24 and 30 years old😂😂 @jennabel91 ready for semi finals 💪🏾 have fun 😉😉 #worldcupriodejaneiro Lei salta come una matta, io mi faccio un pisolino;-))

Una foto pubblicata da Tania Cagnotto (@cagnottotania) in data: 23 Feb 2016 alle ore 06:22 PST

Foto: Tania Cagnotto e Jennifer Abel durante le World Series 2016

La tensione è palpitante. La gara si gioca sul filo del rasoio. La Abel non ripete il risultato delle qualificazioni e dopo tre tuffi paga poco più di 4 punti rispetto a Tania. Il quarto tuffo dell’azzurra, però, non è dei migliori. L’ingresso in acqua è leggermente scarso e i 69.00 punti strozzano l’urlo dei tifosi in gola. Soprattutto perché un paio di minuti dopo la Abel realizza il suo miglior tuffo della gara. 79.90 punti e terza posizione.

Un tuffo che sa di beffa. Di legno. Quattro anni dopo ad un salto dalla fine Tania si ritrova ancora fuori dal podio, ma questa volta i punti da recuperare sono più di 6. Le resta l’ultimo tuffo. L’ultimo tuffo di una carriera stellare che comunque andrà passerà alla leggenda. Il suo tuffo. Quel doppio e mezzo indietro che tante soddisfazioni le aveva dato, ma che a Londra l’aveva fatta precipitare in quel tunnel dal quale rialzarsi era stato tremendamente difficile. Questa volta, però, non c’è pressione. In camera c’è già l’argento conquistato con Francesca, sugli spalti a tifare per lei. Adesso c’è solo la voglia di godersi per l’ultima volta quell’ambiente che per 16 anni era stato la sua casa. Sempre sotto gli occhi di papà Giorgio.

“Il destino se ne va per strade assurde”, diceva Tania. Aveva ragione.

 

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Video: L’ultimo tuffo di Tania Cagnotto. (Immagini Rai)

 

Sulla luna. Il tuffo perfetto. 81 punti. Pochi minuti dopo la Abel sbaglierà l’ultimo tuffo proprio come un anno prima. Tania è medaglia di bronzo. E quell’immagine dell’abbraccio con papà Giorgio e Jennifer Abel ha un sapore particolare. La gioia per una medaglia tanto sognata quanto tremendamente sofferta e il dolore per un’amica che come lei quattro anni prima tornava a casa con due quarti posti. Si riscatterà la Abel, ne siamo sicuri. Quell’abbraccio sembra la metafora perfetta per dire basta e per far scorrere definitivamente i titoli di coda. Sullo sfondo il solito inno cinese fa da colonna sonora. Sul volto quel sorriso che sa più di mille vittorie.

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Foto: L’abbraccio tra Giorgio e Tania Cagnotto con Jennifer Abel dopo la conquista del bronzo.

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Foto: Tania Cagnotto sul podio dei Giochi di Rio 2016.

Filed Under: Giochi Olimpici, Storie, Tuffi Tagged With: Atene 2004, Francesca Dallapè, Jennifer Abel, Londra 2012, Pechino 2008, Rio 2016, Sydney 2000, Tania Cagnotto, Tuffi

Il sogno di Majlinda

June 5, 2016 by matteoscalco Leave a Comment

Il 5 agosto 2016 la judoka Majlinda Kelmendi realizzerà il sogno di sfilare con la propria bandiera davanti al Maracanà e di fronte alle telecamere di tutto il mondo durante la Cerimonia d’Apertura dei Giochi di Rio 2016. Potrebbe essere il sogno di ogni atleta quello di rappresentare la propria nazione, ma dietro a quello di Majlinda c’è molto di più. C’è il sogno di un’intera nazione.

Majlinda rappresenterà il Kosovo. E’ la prima volta nella storia che agli atleti dello stato balcanico viene permesso di partecipare per il proprio paese alla manifestazione a 5 cerchi. Perché Majlinda a Londra 2012 c’era, ma con la bandiera dell’Albania.

 

 Foto: Majlinda Kelmendi ai Giochi di Londra 2012, dove garggiava per l’Albania

 

Era stato proprio il suo secondo passaporto, quello albanese, a portare la judoka kosovara ai primi successi continentali nelle categorie giovanili. Majlinda si laureò presto campionessa europea junior per due volte consecutive nel 2009 e nel 2010, ma per questioni di diplomazia internazionale la bandiera disegnata nel suo judogi era diversa dalla bandiera del suo cuore. Il Kosovo, proclamatosi stato indipendente nel 2008, non era infatti una nazione membro dell’ONU e nonostante fosse all’epoca riconosciuto da 90 paesi (saliti oggi a 115) non poteva portare atleti in rappresentanza del proprio vessillo nelle principali competizioni internazionali.

Majlinda era così costretta a gareggiare con la scritta “ALB” sul petto, oppure con la sigla “IJF”, visto che la Federazione Internazionale di Judo (International Judo Federation) le permetteva di gareggiare sotto il proprio nome nelle manifestazioni a livello mondiale. Sotto questo compromesso l’atleta kosovara approdò ai Campionati Mondiali Junior 2009, a Parigi, dove scrisse la sua prima pagina di storia. Dopo la vittoria della sua semifinale il presidente della federazione Marius Vizer le si avvicinò, promettendole che avrebbe fatto suonare l’inno del suo paese se fosse riuscita a vincere. Poche ore dopo Majlinda festeggiava il suo primo titolo mondiale sulle note di “Europe”, che risuonava per la prima volta in un evento sportivo internazionale.

Sull’onda di queste vittorie il nome di Majlinda finì sul taccuino di numerose nazioni, disposte a naturalizzarla per permetterle di gareggiare sotto la loro bandiera. La giovane kudoka si trovava di fronte ad un bivio. La sua famiglia non navigava di certo nell’oro e trasferirsi le avrebbe permesso di avere a disposizione un team con i requisiti tecnici e finanziari perfetti per proseguire la sua carriera. Mai come allora, però, fu determinante la figura del suo allenatore, Driton “Toni” Kuka. Majlinda aveva iniziato ad allenarsi a 9 anni nella palestra di Toni, atleta che all’inizio degli anni Novanta si era laureato più volte campione nazionale yugoslavo nel judo. In quel periodo era proiettato a partecipare ai Giochi di Barcellona 1992, una speranza che si spense quando, un anno prima, i kosovari di etnia albanese vennero esclusi dal team olimpico, agli albori dei dissapori politici che portarono la Yugoslavia alla guerra civile.

Toni e Majlinda ricevettero dal 2009 offerte che arrivarono al milione di euro, ma la giovane judoka era determinata a portare avanti un sogno, lo stesso che era stato portato via al suo allenatore. Rappresentare il Kosovo alle Olimpiadi.

 

#MondayMotivation Double world champ Majlinda Kelmendi (KOS) aged 9 w/ her coach Driton Toni Kuka #IJF #Judo #Kosovo pic.twitter.com/PNbQF9EiW7

— Int. Judo Federation (@IntJudoFed) 10 novembre 2014


Le cose, tuttavia, non andarono come previsto. Majlinda arrivò nel 2012 al quinto posto nel ranking mondiale della sua categoria (-52kg), un piazzamento che le diede il pass diretto per i Giochi di Londra. Davanti alla richiesta della judoka di partecipare sotto la propria bandiera, il CIO rispose negativamente, a fronte di quelle nazioni come Russia e Cina che ancora supportavano la Serbia nella sua pretesa di considerare lo stato kosovaro come parte integrante del suo territorio. “Non capisco perché la politica deve venir sempre prima di tutto. Forse il Kosovo è solo un piccolo stato, e non è abbastanza forte per influenzare certe cose”, furono le parole di frustrazione della giovane atleta.

Majlinda partecipò ai Giochi di Londra, ma con l’Albania. L’anno dopo, la Federazione Internazionale di Judo riconobbe il Kosovo, sfidando di fatto la decisione presa l’anno prima dal CIO e permettendo per la prima volta a Majlinda di partecipare con la propria bandiera ai Campionati Mondiali. A Rio de Janeiro la judoka si laureò campionessa del mondo nella categoria   -52kg, portando il Kosovo per la prima volta a trionfare in una competizione internazionale. Nel 2014 concede il bis, salendo sul gradino più alto del podio a Chelyabinsk, in Russia, dove però l’ostinazione di Putin la costrinse a gareggiare ancora una volta per la IJF. “Fu una grande sorpresa”, ricorda Majlinda, “arrivai lì certa di rappresentare il mio paese, ma non mi fu permesso”. Ma quella fu l’ultima volta.

Nel dicembre 2014, dopo essere stata premiata come miglior judoka del mondo, arrivò il sospirato annuncio per cui Majlinda aveva combattuto per tutta la carriera. Il Comitato Olimpico del Kosovo venne ufficialmente riconosciuto dal CIO, con il permesso per i propri atleti di partecipare ai Giochi di Rio 2016. “La gente del Kosovo sta celebrando probabilmente il giorno più importante dalla nostra dichiarazione d’indipendenza”, dichiarò per l’occasione il ministro degli esteri del paese Petrit Selimi, aggiungendo come “avere un team olimpico sia un grande identificatore dell’orgoglio e dell’identità della nazione”.

 

 Foto: Majlinda diventa Campionessa Mondiale a Rio de Janeiro nel 2013, la prima vittoria mondiale per il Kosovo

 

Majlinda arriverà a Rio 2016 dopo aver conquistato il suo secondo titolo europeo lo scorso aprile a Kazan, in Russia, dove solo grazie ad una lunga mediazione della Federazione Internazionale le era stato permesso di partecipare per il Kosovo, portando per la prima volta la sua bandiera a sventolare sul suolo dell’ex Unione Sovietica. La sua storia dimostra come ancora oggi il mondo sportivo resti forse l’unico in grado di abbattere gli interessi politici, andando oltre i pregiudizi di poche persone al potere. Majlinda porterà la sua bandiera a Rio 2016 e proverà a far risuonare di nuovo il suo inno di fronte al tutto il mondo. Lei coronerà il suo sogno e il Kosovo troverà la sua identità.

 

(Fonti: CNN, ft.com, revistabalcanes.com)

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Room 124 – Doping di stato a Sochi 2014

May 25, 2016 by matteoscalco Leave a Comment

Almeno un terzo degli atleti russi vincitori di medaglie ai Giochi Olimpici di Sochi 2014 sarebbe stato dopato, seguendo un sistema di doping statale studiato dal governo e dall’intelligence russa. È questo il risultato di una serie di interviste rilasciate dal dottor Grigory Rodchenkov al produttore cinematografico americano Bryan Vogel, autore del documentario “Icarus”, in uscita a settembre ed incentrato sulla storia del medico russo.

Dr. Grigory Rodchenkov (Fonte: startribune.com)

IL DOTTORE. Direttore del laboratorio anti doping di Mosca fin dal 2005, Grigory Rodchenkov era passato agli onori della cronaca nello scorso novembre, quando l’agenzia anti doping mondiale, la WADA, lo accusò di aver distrutto 1417 provette per evitare il termine delle indagini sul sistema di doping statale che avrebbe coinvolto parte della squadra di atletica russa nei Giochi di Londra 2012. Fu allora che il dottore fu costretto alle dimissioni, trasferendosi a Los Angeles con l’aiuto del regista americano, temendo per la sua sicurezza.

Considerato uno dei maggiori esperti al mondo nel campo dei medicinali dopanti, Rodchenkov ha ammesso come nel corso degli anni sia arrivato tramite numerosi esperimenti a sviluppare un cocktail di tre steroidi anabolizzanti (metenolone, trenbolone e oxandrolone) che numerosi atleti russi avrebbero assunto durante la preparazione ai Giochi di Londra e di Sochi. Il programma di Rodchenkov era preciso e non permetteva distrazioni: un milligrammo di formula per ogni millilitro di alcol, ma era chiaro come tenere sotto controllo l’intero sistema non fosse così semplice. Rodchenov ha parlato degli atleti paragonandoli ai bambini che “mettono in bocca qualsiasi cosa tu gli dia”, riferendosi a coloro che assumevano le sostanze dopanti nei tempi non programmati, rendendoli vulnerabili ai test. E’ il caso di Elena Lashmanova, oro olimpico nella marcia a Londra e successivamente trovata positiva all’anti doping.

SOCHI. Non era abbastanza. Sochi era l’occasione giusta per assicurare alla Russia il maggior numero di medaglie possibile, l’opportunità per controllare il laboratorio dell’anti doping e permettere agli atleti l’utilizzo di sostante dopanti non solo nella preparazione, ma anche durante le competizioni. Dal novembre 2013 Rodchenkov ha ammesso di aver ricevuto numerose visite da parte di diversi agenti della F.S.B. l’intelligence russa, interessati alle provette numerate dove venivano inserite e sigillate le urine necessarie per i test. Il problema era aprirle.

Come ci riuscirono è ancora un mistero, ma Rodchenkov sostiene che numerose settimane prima dei Giochi un agente della F.S.B. venne da lui presentandogli una provetta precedentemente sigillata aperta, con la capsula numerata perfettamente intatta.

Il laboratorio anti doping ospitava per i Giochi di Sochi uno staff di circa 100 persone, composto in gran parte da membri dello staff di Rodchenkov, ma anche da dottori esperti provenienti da tutto il mondo. Ogni notte, nei momenti in cui la presenza di supervisori era minore se non assente, il medico russo riceveva da un ufficiale del ministero dello sport una lista degli atleti dei quali le provette dovevano essere scambiate. Dopo mezzanotte, Rodchenkov si recava verso la stanza 124, un magazzino che era stato convertito dal suo staff in una sorta di laboratorio ombra, dove attraverso un buco nella parte inferiore della parte confinante con la stanza successiva scambiava le provette degli atleti con un ufficiale dell’intelligence russa. Era di quest’ultimo il compito di portarle in un edificio adiacente al palazzo anti doping, dove le provette venivano effettivamente manomesse e aperte.

Il gioco era fatto. Rodchenkov nel giro di poche ore ritrovava nel magazzino le medesime provette, ognuna con il rispettivo tappo aperto. A loro fianco erano sempre presenti anche bottiglie di soda e altri piccoli contenitori con campioni di urina puliti, collezionati da ogni atleta mesi prima dell’inizio dei Giochi. In un bagno vicino, a luci rigorosamente spente, Rodchenkov e altri membri della sua troupe si occupavano di lavare le provette e di riempirle con l’urina pulita, aggiungendo acqua e sale per mantenere inalterato il bilanciamento di sostanze tra provetta A e B. Per tutti i Giochi, per tutte le notti, fino all’alba.

 Foto: Alexander Legkov – Oro e argento ai Giochi di Sochi 2014

 

VITTORIA. Alexander Zubkov, doppio oro nel bob, Alexander Tretyakov, oro nello slittino, Alexander Legkov, oro e argento nello sci di fondo: cinque medaglie per tre nomi che apparvero nelle liste di Rodchenkov nelle lunghe notti russe. La Russia arrivò ai Giochi di Sochi reduce dal 12esimo posto nel medagliere di Vancouver 2010, frutto di 15 medaglie e 3 ori complessivi. Ne uscì dai Giochi casalinghi con 33 medaglie, 13 ori e il programmato trionfo nel medagliere finale. “Una pietra miliare nell’evoluzione del programma anti doping dei Giochi Olimpici”: così scriveva la WADA nel suo report successivo a Sochi 2014, esprimendo le proprie congratulazioni a Rodchenkov e a tutta la sua troupe. Ma appena un anno e mezzo dopo lo ritroviamo a Los Angeles, in fuga dalla Russia e accusato dalla stessa agenzia anti doping di aver diretto il più grande programma di doping di stato dalla caduta dalla fine della Guerra Fredda.

L’ammissione di Rodchenkov è solo l’ultimo capitolo di una storia che racconta di un sistema di doping che ormai va avanti da anni. Proprio oggi la Russia ha svelato il nome di 14 atleti dei quali la rivalutazione dei test ha rilevato la positività ai Giochi di Pechino 2008, sull’onda di un’escalation nata a novembre, quando la WADA chiese la squalifica a vita di 5 atleti russi militanti all’Olimpiade di Londra. Il ministero dello Sport russo ha definito le accuse di Rodchenkov e della WADA come un “attacco politico”, in risposta alla richiesta di squalificare l’intera squadra di atletica russa ai prossimi Giochi di Rio. La questione resta aperta ma la domanda è: è giusto?

GIUSTIZIA. Le prove ci sono e le testimonianze di Rodchenkov e degli atleti interpellati dalla WADA dimostrano che il problema è reale e non è da sottovalutare. Una potenziale esclusione della Russia però rischia di stravolgere l’equilibrio delle forze politiche che ruotano al mondo dello sport, cosa che potrebbe riportarci ad una situazione non lontana dai boicottaggi degli anni Ottanta, pensando anche al peso politico ed economico che il governo russo ha dato alla faraonica organizzazione dei Giochi di Sochi. Non è giusto, però, che atleti puliti vengano condannati per colpe che non sono loro e per forze che sono completamente esterne da quello che è l’ambiente e lo spirito dello sport.

 

.@yelenaisinbaeva believes an Olympic ban would be a violation of her human rights #RioOlympics2016 pic.twitter.com/iyWL2OVqoo

— PA Sport (@pasport) 23 maggio 2016

 

 

L’olimpionica nel salto con l’asta Yelena Isinbaeva ha definito la possibilità come una “violazione diretta dei diritti umani”, minacciando di rivolgersi direttamente alla rispettiva corte internazionale. La battaglia dell’anti doping va combattuta nelle sedi che le spettano e non direttamente sul campo di gioco, come molti vorrebbero per screditare l’immagine di un’intera nazione di fronte all’opinione pubblica mondiale. La Russia non va difesa, ma va compresa in coloro che si impegnano per anni per arrivare a scrivere il proprio nome non soltanto nella storia della loro disciplina, ma nella storia dello sport.

 

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