«Non starò in piedi per dimostrare il mio orgoglio per la bandiera di un paese che opprime i neri e le minoranze etniche. Per me è più importante del football, e sarebbe egoista guardare dall’altra parte».
Orchand Park, 2016. Prima della partita tra i Buffalo Bill e i San Francisco 49ers va in scena il consueto inno nazionale. Tra la schiera dei giocatori della squadra ospite si scorge un giocatore seduto. Una nota stonata in quello che è il tradizionale cerimoniale che introduce ogni competizione sportiva sul suolo statunitense. Non è la prima volta. Colin Kaepernick aveva deciso che l’avrebbe fatto per tutta la stagione, l’avrebbe fatto almeno fino a quando il trattamento dei neri negli Stati Uniti non sarebbe migliorato. Qualcuno lo seguì, altri gli diedero del traditore. Molti lo rispettarono.
Quest’anno Colin è rimasto senza squadra.
Eppure il suo nome è improvvisamente tornato alla ribalta. Nell’ultimo weekend a Nashville nessuna squadra è scesa in campo per l’esecuzione dell’inno. A Chicago in campo c’era il solo Alejandro Villanueva, un ex-militare che servì in Afghanistan, a rappresentare i Pittsburgh Steelers. A New York parte dei Miami Dolphins vestivano lo slogan #IMWITHKAP (Io sto con Kap). A Boston molti giocatori si sono inginocchiati. Come a Philadelphia, a Los Angeles, a Indianapolis, a Charlotte, a Minneapolis, a Washington. A Londra i giocatori dei Baltimore Ravens e dei Jacksonville Jaguars si sono alzati solo per l’inno britannico.
Un paio di giorni prima qualcuno al vertice aveva parlato di questo gesto come di una mancanza di rispetto. E lo sport, ancora una volta, ha risposto.
«Ho una figlia ed in questo mondo è destinata a viverci. Sono disposto a fare tutto il necessario per far si che un giorno possa guardare il suo papà dicendo: “Hey, ha provato a cambiare le cose”».
Le parole di Michael Thomas, capitano dei Miami Dolphins, dicono tutto, o quasi. La battaglia di Kaepernick si poneva come un gesto di denuncia nei confronti di temi relativi al razzismo, ma nell’occhio del ciclone più del messaggio ci è finito il gesto stesso. Ancora una volta lo sport ha dato voce a un sentimento forse più grande del raggio d’azione di quello che alla fine è un semplice «gioco», avviando tuttavia un dibattito finito sui media di tutto il mondo e nel quale si è dimostrato unito nelle reazioni di tutti i suoi protagonisti, laddove la politica tendeva ancora una volta a dividere.
È solo il primo passo. Altri sport più “tradizionalisti” come la Nascar vedono nel rispetto dei simboli come l’inno e la bandiera un principio imprescindibile, un principio rispetto al quale il massacro mediatico nei confronti dei gesti considerati “irrispettosi” non è visto come solo una suggestione. Ciò che è successo nei campi di football può essere considerato un successo, ma la realtà è un’altra. Quello di Kaepernick è solo un punto d’inizio…